Stefania Gori
Nel 2010 la casa editrice Einaudi invita Luigi Mainolfi ad illustrare l’Odissea per la collana Millenni. Due anni dopo, sempre per la stessa collana, gli viene commissionata l’Iliade. Per le illustrazioni elabora un gruppo di opere in terracotta dal titolo “ Le armi di Ettore”. Si tratta del ciclo di lavori presentati oggi alla Galleria Vannucci innanzitutto sono un opportunità per comprendere pienamente l’intreccio profondo nel lavoro di Mainolfi tra il mondo antico, arcaico e la nostra contemporaneità. La storia alla base del ciclo è nota. Ettore si impadronisce delle armi di Achille, armi splendenti che erano state donate all’eroe greco dal padre Peleo. Il fatto è che Ettore se ne impadronisce uccidendo non Achille ma il suo intimo amico Patroclo, che le aveva indossate per recarsi in battaglia e spaventare i troiani, rimbaldanziti da un’irosa auto-esclusione del temibile Pelide dalla guerra. Patroclo incontra Ettore, eroe “buono” che lo ammazza senza tanti discorsi e si prende armatura e tutto il resto. Poi accade una di quelle cose che rendono l’Iliade immortale. Si comincia a creare una catena di eventi che sembra parlare agli esseri umani di ogni tempo. Ettore vuole indossare l’armatura del grande nemico. Il macabro prestigio delle armi e della violenza prende possesso dello spirito di quest’uomo. E a quel punto vuole anche il cadavere del nemico. Qvueste armi, donate a suo tempo da un Dio a Peleo, sembrano divenire il centro di una follia violenta. Il corpo di Patroclo è però protetto da Aiace Telamonio, fortissimo guerriero greco, il quale uccide molti troiani per non cederlo (per il morto, tanti morirono – dice l’Iliade, con parole che dovrebbero essere ascoltate da ogni sostenitore della guerra). E mentre Ettore indossa queste armi, si ode nel racconto la voce di Zeus: l’essere supremo dell’Olimpo sa che quelle armi porteranno sventura la nobile troiano, e lo mormora triste fra sé. Zeus lo sa che la gloria delle armi è breve e dolorosa. Avrai iniziali successi, ti sentirai forte, sembra dirgli, ma la Morte già ti cammina accanto. Lo stesso Zeus lo aiuta ad adattarsi le armi addosso, quasi a voler significare che gli dei non fermano il corso della sorte. Ecco cosa sembra dirci di eterno l’Iliade: ci comunica a suo modo l’orrore per ciò che scaturisce dalle armi e dalla violenza, dalla disumanizzazione che queste operano sull’essere umano. Si sa come finisce la storia: Achille ammazza Ettore senza pietà; senza pietà ne strazia il corpo; senza pietà gli nega sepoltura. Solo dopo giorni di empietà, il dolore di un padre (il vecchio Priamo) lo riporta su questa terra, alla sua natura umana. Silvia Evangelisti Artista poliedrico, nel corso della sua vita creativa Luigi Mainolfi ha frequentato molteplici linguaggi, dalla scultura alla pittura, dal video all’installazione alla fotografia. Ha impiegato i diversi media concentrando la ricerca sull’espressività della materia, cercando il valore linguistico nella materia stessa. La sua arte, potente e raffinata, si è sviluppata in una città e in un tempo fortemente connotato, la Torino dell’Arte Povera. Mainolfi, pur immerso in quel clima e di esso partecipe, è sempre rimasto volutamente indipendente da correnti e movimenti, mantenendo un’autonomia di pensiero poetico che lo ha accompagnato dagli esordi sino ad ora. Una delle caratteristiche del lungo percorso artistico di Luigi Mainolfi è legata ad una raffinata poetica dei materiali che, accanto e oltre al fascino imprescindibile del fare, obbedisce ad una intenzionalità profonda da parte dell’artista, una intenzionalità volta ad affrontare attraverso la materia il senso profondo ed interno della forma, la sua essenza prima. C’è, nella sua opera, il richiamo ad una sorta di ritualità simbolica ancestrale che, pur reinserita nella viva contemporaneità, rimanda ad un tempo lontano, quasi mitico. Le grandi composizioni in terracotta – materiale elementare e antico, generato dall’unione degli elementi primari per eccellenza: terra più acqua più fuoco – le giare, le sfere, i soli, così come le forme di animali delineate da filo di ferro, fino agli stendardi di tela colorati che costituiscono la grande installazione di questa mostra, hanno a chè fare con l’idea archetipica del mito: archetipi (quei modelli originari che costituiscono quello che Jung ha chiamato l’ “inconscio collettivo”), le cui immagini trovano espressione nei miti e non possono essere raccontati che attraverso di essi, “perché il mito è il modo specifico di narrarsi dell’ «anima» che non può essere distorto dalla sovrapposizione di un linguaggio concettuale ad esso estraneo”1, come scrive Galimberti. Ma se il rapporto fra arte e mito rischia a volte di essere solo sguardo sul passato ancestrale, memoria estrema, nelle opere di Luigi Mianolfi acquista un’accezione mitopoietica: sulla individuazione dei paradigmi e delle direzioni di senso originarie del mito esso rinasce, si riscrive, si dà nuova forma, nuove epifanie simboliche.