Il nuovo alfabeto dello spazio
Il nuovo spazio della Galleria Vannucci, un edificio industriale che un tempo ospitava le officine elettromeccaniche e ferroviarie Storai e dove si è formata un’intera generazione di metalmeccanici, è un grande capannone, restaurato, che ancora porta sulle pareti e sul pavimento le traccie dei materiali che lì si lavoravano, e ancora pare riecheggino i rumori della macchine e le voci degli operai. Non poteva che innamorarsi di un luogo così connotato dal lavoro quotidiano un artista come Giovanni Termini, che incentra il proprio intervento artistico in relazione al contesto in cui l’opera prenderà vita. Termini è artista per eccellenza (e per scelta poetica) del site specific. Possiamo dunque dire che sta lavorando a un nuovo alfabeto dello spazio, dando vita e voce anche agli angoli dimenticati, alle pieghe remote, così come alle grandi superfici orfane. Studia lo spazio in cui allestirà le sue opere, lo abita, ne assorbe gli odori – il grasso, il ferro, il cemento -; i colori spenti, grigi in decine di sfumature; il lavoro del tempo nell’usura dei materiali; lo spazio collettivo e quello individuale. Tutto entra nelle opere e ne diviene parte inseparabile: quell’opera e quel luogo sono un tutt’uno e si completano a vicenda in modo tale che si percepisce come quel lavoro non possa essere trasferito da quel luogo ad un altro senza che ciò cambi nettamente il suo senso. Nell’intervista nel catalogo che accompagnava l’ultima personale di Giovanni Termini alla Galleria Vannucci, l’artista ne dà conferma: “Io non produco il lavoro e poi lo porto in mostra. Se questo accade, è sempre un’idea di progetto che espongo. In realtà mi piace molto anche costruire la mostra e lavorare con le persone del luogo.” Fondamentale, dunque, per Termini, il momento progettuale: è momento di concentrazione concettuale, dell’idea che si fa forma ed il percorso della mente si trasforma in intervento della mano, azione che si fa forma; forma pensata, strumento puro di ricerca della profondità del pensiero ed insieme affermazione del vivere, del partecipare al mondo, della sua ambiguità. La concezione dello spazio – lo spazio in cui l’artista opera ed in cui e da cui vive l’opera – non è per lui una dimensione astratta, predefinibile, non è lo spazio cartesiano; non è – citando le parole di Maurice Merleau-Ponty – “un reticolo di relazioni tra gli oggetti, come lo vedrebbe un testimone della mia visione, o un geometra che la ricostruisse sorvolandola, ma è uno spazio considerato a partire da me come punto o grado zero.”